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Nutrizione

DIAMO IL GIUSTO PESO

Una delle domande più frequenti durante il primo incontro conoscitivo è: “dottoressa, qual è il mio peso ideale? Quanto dovrei pesare in base alla mia altezza?”

Questa domanda è più complessa di quello che sembra. Il peso è una delle variabili corporee, un valore che fluttua in modo fisiologico durante il giorno e le diverse fasi della vita, come la glicemia o la pressione sanguigna, che difficilmente rimangono immutate. Ci possono essere  situazioni in cui uno di questi valori si discosta in modo significativo rispetto al solito in un senso o nell’altro. 

Il concetto di peso “ideale” è obsoleto e fuorviante. Consideriamo due persone diverse, con la stessa identica altezza; senza conoscere abitudini alimentari e di vita, caratteristiche, eventuali problemi di salute, come facciamo ad indicare un valore predefinito che vada bene per entrambe? Non è possibile. Il peso di per sé può essere sottoposto a modifiche  per effetto di ormoni, cambiamenti nello stile di vita, patologie, condizioni fisiologiche (gravidanza ma anche la semplice crescita). Ci sono molti aspetti della persona che vengono valutati durante gli incontri nutrizionali.

Di solito rispondo che scopriremo insieme il “peso naturale”, cioè quell’intervallo di valori – non siamo statue ma esseri viventi – entro cui oscilla il peso di una persona che si alimenta in modo variato ed equilibrato, senza escludere intere categorie di alimenti, mantenendo uno stile di vita attivo anche dal punto di vista sociale, senza segni clinici di malnutrizione e/o sofferenza rispetto al rapporto con il cibo e con il proprio corpo

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Nutrizione

Nutrizione

Il DIETISTA è l’operatore sanitario formato nella corretta applicazione dell’alimentazione e della nutrizione al fine di promuovere il benessere dell’individuo e delle collettività. Opera attraverso percorsi nutrizionali personalizzati, programmi di ri-educazione alimentare e incontri di gruppo. Il supporto del dietista è costante e non giudicante, volto a sostenere il paziente nel rispetto delle necessità, abitudini e stato di salute. 

IL PRIMO INCONTRO

Durante il colloquio conoscitivo verranno valutati diversi aspetti della persona:

ANAMNESI ALIMENTARE per definire abitudini, tipologia e modalità dei pasti, rapporto con il cibo

• Valutazione dello stato nutrizionale

• Impostazione di un PERCORSO NUTRIZIONALE e EDUCATIVO condiviso e personalizzato

• Definizione degli obiettivi per stabilire un rapporto più sano con il cibo e gestire eventuali condizioni patologiche e fisiologiche

COME POSSO AIUTARTI?

Presso il centro clinico Logos la dott.ssa si occupa di bambini, adolescenti e adulti e delle seguenti condizioni:

• Svezzamento e alimentazione complementare 

• Scarso accrescimento 

• Obesità infantile

• Disturbi del comportamento alimentare

• Supporto in gravidanza, diabete gestazionale, allattamento, menopausa

• Sovrappeso e Obesità

• Allergie e intolleranze alimentari, malattia celiaca

• Attività sportiva

• Patologie accertate (diabete tipo 1 e 2, ipertensione, ipercolesterolemia..)

• Disturbi gastro-intestinali (reflusso, gastrite, disbiosi intestinale..)

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PSICOTERAPIA Psicoterapia cognitivo-comportamentale

Rimuginio: La spirale del pensiero ripetitivo

Il Rimuginio è un processo di pensiero utilizzato di frequente da chi soffre di disturbi d’ansia anche se, in piccole dosi, vi fanno ricorso anche le persone che non manifestano particolari problematiche psicologiche.

A chi non è mai capitato di trovarsi assorto nell’anticipare gli esiti di alcuni eventi che ancora non si sono verificati e che forse non si verificheranno mai?

Tali eventi possono riguardare catastrofi naturali, disgrazie economiche, la perdita di una persona cara, ma anche altre situazioni di vita indubbiamente meno drammatiche che però potrebbero in qualche modo metterci in difficoltà.

Perché rimuginiamo?

Tendenzialmente, il motivo per cui le persone reputano utile preoccuparsi di futuri eventi negativi più o meno probabili, riguarda la loro percezione circa la probabilità di poter in qualche modo prevenire o scongiurare il verificarsi di tali eventi o, qualora la prevenzione non sia possibile, di potersi preparare ad affrontare l’imminente catastrofe.

Il principio che sta alla base di questo ragionamento, purtroppo errato, è che il semplice ipotizzare eventuali scenari ed immaginare il loro dipanarsi nel corso del tempo abbia un qualche potere nel rendere più o meno probabili quegli stessi scenari oppure che l’immaginare il proprio stato d’animo conseguente al verificarsi di quello scenario, possa renderci maggiormente in grado di affrontarlo nella realtà.

In termini tecnici, queste assunzioni vengono definite da Adrian Wells, un noto psicologo che da tempo si occupa dei processi rimuginativi, “meta-credenze positive circa il rimuginio”.

Che cos’è il rimuginio?

Contrariamente a ciò che le nostre meta-credenze positive ci portano a pensare, il rimuginio è in realtà  una tipologia di pensiero negativo, ciclico e ricorrente.

Esso è negativo poiché si concentra strettamente su scenari negativi e catastrofici, ciclico e ricorrente poiché tende a ripetersi  senza tuttavia fornire all’individuo nessun piano d’azione. 

Il Rimuginio è infatti un tipo di ragionamento molto vago ed astratto e, sebbene renda possibile immaginare con dovizia di particolari uno scenario temuto, esso di fatto non fornisce alcuna soluzione utile per prevenirlo o risolverlo.

Facciamo un esempio: pensiamo ad uno studente che a due settimane da un importante esame, inizia a preoccuparsi di non riuscire a superare la prova.

Lo studente comincerà a rimuginare su questa ipotesi e, in linea con l’importanza che quell’esame ha in relazione alla sua carriera universitaria, formulerà i seguenti pensieri: “Se fallirò all’esame starò malissimo!”, “Non riuscirò più a riprendermi”, “Tutti mi giudicheranno come un buono a nulla”, “Sarò talmente disperato che non potrò concentrarmi sulle altre materie”, “Non riuscirò a finire l’università”, “Non potrò fare il lavoro per cui ho così duramente lavorato fino ad ora”, “Sarà la mia rovina!”.

Tali pensieri potranno poi essere accompagnati anche da immagini più o meno elaborate del volto deluso del professore durante la prova, di sé stesso a distanza di anni, rannicchiato in un angolo a soffrire per tutto ciò che è stato perduto e chi più ne ha più ne metta.

L’elenco dei pensieri rimuginativi e delle immagini mentali associate potrebbe proseguire all’infinito e, tutti quanti, manterrebbero le stesse implicite caratteristiche di negatività e di assenza della formulazione di strategie utili alla prevenzione o al fronteggiamento della situazione immaginata.

Il rimuginio come processo dannoso

Oltre ad essere del tutto inutile, il rimuginio può rivelarsi oltretutto dannoso poiché, di fatto, blocca l’accesso a strategie più utili e funzionali al fronteggiamento della situazione temuta.

Torniamo un attimo all’esempio del nostro studente. Egli, con buona probabilità passerà ore ed ore ad immaginare tutti i possibili scenari catastrofici conseguenti alla sua bocciatura convinto che questo possa essergli in qualche modo utile.

Quelle stesse ore però verranno di fatto sottratte al tempo utile che lo studente ha ancora per prepararsi al suo esame aumentando, in ultima analisi, il rischio che la prova non venga di fatto superata.

Non solo, concentrandosi unicamente sugli esiti negativi dell’evento, l’ansia anticipatoria associata ad esso tenderà inevitabilmente ad aumentare, inficiando la concentrazione e la motivazione verso quella sfida.

Il circolo vizioso

Nel momento in cui il nostro studente si renderà conto che rimuginando nel tentativo di ridurre la propria ansia e rendersi più preparato ha di fatto perso molto tempo prezioso ed aumentato il proprio stato di allerta, sarà ancora più spaventato e, con buona probabilità, cercherà in tutti i modi di smettere di rimuginare. 

A questo punto egli si imporrà di non pensare a tutte quelle fastidiose immagini ottenendo però il risultato esattamente opposto. Più tenterà di controllare la propria mente scacciando i pensieri rimuginativi, più quelli stessi pensieri diventeranno invadenti ed intrusivi. 

Provate voi stessi: mentre siete seduti a leggere questo articolo ripetetevi intensamente di non pensare ad un pinguino che cammina tranquillo in mezzo alla neve.

Qual è il risultato? Non è affatto facile rimanere concentrati sul testo, vero? 

Questo accade perché, nel momento in cui imponete al vostro cervello di non prestare attenzione ad un determinato stimolo, gli state di fatto fornendo implicitamente quello stesso stimolo e lui non potrà fare a meno di portarlo alla vostra coscienza.

La stessa cosa accade nel momento in cui ci imponiamo di scacciare i pensieri rimuginativi: quei pensieri diventeranno di fatto più vividi finendo per interferire ancora di più con le nostre attività.

È attraverso questo meccanismo che, a seguito dell’attivazione delle meta-credenze positive circa il rimuginio, si attivano delle credenze totalmente opposte, relative alla pericolosità ed all’incontrollabilità del processo rimuginativo. Tali credenze, definite da Wells “meta-credenze negative sul rimuginio” non fanno altro che incentivare i tentativi di controllo del pensiero, finendo in ultima analisi per incrementare ancor più la loro presenza e facendoci cadere vittime di un vero e proprio circolo vizioso.

Come uscire dalla trappola?

Sebbene il rimuginio sia una modalità di pensiero piuttosto frequente, fortunatamente, non tutte le persone la utilizzano con un’intensità tale da renderla dannosa o da impedire una buona qualità di vita. 

Non è purtroppo così per coloro che soffrono di particolari disturbi come, ad esempio, il disturbo ossessivo-compulsivo ed i disturbi d’ansia, tra cui, per frequenza di utilizzo del pensiero rimuginativo, spicca il disturbo d’ansia generalizzato. In questa particolare condizione, infatti, il nodo centrale del problema sta proprio nel ricorso costante a strategie disfunzionali di anticipazione di eventuali eventi negativi o catastrofici che, sulle lunghe distanze, portano chi ne soffre a vivere in uno stato di allarme costante da cui sembra impossibile trovare una via d’uscita.

Per il disturbo d’ansia generalizzato, così come per le altre condizioni associate a marcati processi rimuginativi, è invece possibile svolgere un tipo di intervento in grado di ridurre tali meccanismi fornendo contemporaneamente nuovi metodi, più funzionali, per approcciarsi tanto ai problemi reali quanto alle catastrofi immaginate. Questa tipologia di intervento, inizialmente formulata e proposta da Adrian Wells, è chiamata “terapia metacognitiva”. Essa si basa proprio sull’individuazione e sulla successiva modificazione delle meta-credenze positive e di quelle negative coinvolte nella genesi e nel mantenimento dei processi rimuginativi.

Wells, A. (2012). Terapia metacognitiva dei disturbi d’ansia e della depressione. Eclipsi.

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Psicoterapia cognitivo-comportamentale

Disturbo Ossessivo-Compulsivo

Disturbo ossessivo compulsivo

Il Disturbo ossessivo-compulsivo è una condizione caratterizzata dalla presenza di ossessioni e compulsioni. 


Con il termine ossessione si fa riferimento alla comparsa di un contenuto mentale (pensiero, immagine o impulso) indesiderato ed intrusivo, ossia che compare contro la volontà dell’individuo. La comparsa di questo contenuto causa uno stato di disagio che può manifestarsi sotto forma di emozioni spiacevoli come, ad esempio, l’ansia ed il disgusto.


Con il termine compulsione si fa invece riferimento a ciò che la persona fa nel tentativo di liberarsi dal pensiero ossessivo con l’obiettivo ultimo di ridurre lo stato di ansia o disgusto ad esso associato. 

Le compulsioni possono essere rappresentate da comportamenti (e.g. il lavarsi le mani a seguito della comparsa di un’ossessione circa il timore di essere stati contaminati) oppure da attività mentali (e.g. pregare, rimuginare per scongiurare la possibilità che un brutto pensiero possa verificarsi). Le compulsioni comportamentali sono anche dette compulsioni overt mentre quelle mentali compulsioni covert. 


Le persone affette da disturbo ossessivo-compulsivo sono frequentemente vittime di pensieri indesiderati e, spesso, strutturano nel tempo dei rituali compulsivi molto elaborati e complessi con l’obiettivo di alleviare la propria sofferenza.
Ciò fa sì che, di frequente, le relazioni, il lavoro e la sfera personale e sociale vengano fortemente limitate dalla presenza di questa sintomatologia. 
Proprio per questo motivo il disturbo ossessivo-compulsivo è annoverato tra le psicopatologie più invalidanti in termini di riduzione della qualità di vita di chi ne soffre.

Classificazioni del disturbo ossessivo-compulsivo 


Il DOC è un disturbo molto eterogeneo e può manifestarsi in diverse forme, anche eterogenee tra loro. Alcune classificazioni suddividono le tipologie di disturbo in base alla tipologia di compulsione messa in atto. Le tipologie di compulsioni possono essere suddivise in:
– compulsioni di controllo
– compulsioni di lavaggio
– compulsioni superstiziose
– compulsioni di ripetizione e conteggio

Esiste poi un’altra categoria, quella delle ossessioni pure che non presenta rituali o compulsioni evidenti e strutturate, anche se, nella maggior parte dei casi, vengono comunque messi in atto dei comportamenti più o meno evidenti volti a gestire le emozioni connesse al dubbio ossessivo.

Visto che spesso, nel tempo, le varie tipologie di compulsioni tendono a sovrapporsi tra loro, da un punto di vista clinico, è forse più utile classificare il disturbo ossessivo compulsivo in base al timore di fondo che sta alla base del dubbio.
Il DOC può infatti legarsi a diversi aspetti quali, ad esempio:

– Una responsabilità eccessivamente alta associata al timore di causare un danno ad oggetti o ad altre persone a causa della propria disattenzione (e.g. investire qualcuno mentre si guida, causare un’esplosione perché non si è chiuso il gas, ammalarsi e/o far ammalare qualcuno poiché non si è stati attenti a prevenire un possibile contagio). Questa categoria può includere i rituali di controllo, quelli di lavaggio, volti a prevenire contagi e malattie, e quelli superstiziosi.

– Il timore di scoprire di essere una brutta persona a causa della presenza di pensieri giudicati come moralmente o socialmente inaccettabili (e.g. pensieri sessualmente devianti, auto ed etero-aggressivi, blasfemi, pedofilici, di tradimento, omosessuali in persone eterosessuali ed eterosessuali in persone omosessuali). Tale categoria si associa di frequente all quelle che vengono definite ossessioni pure anche se, come precedentemente detto, anche i pensieri inaccettabili presentano delle strategie di gestione del disagio che possono essere di natura superstiziosa o, più spesso, delle compulsioni mentali svolte nel tentativo di esercitare un controllo sui propro pensieri, associati a strategie comportamentali volte a prevenire la comparsa di tali pensieri o a mettersi alla prova rispetto ad essi.

– Il timore di contaminazione legata ad una componente di disgusto, più che al timore di recare danno a sé o ad altri. Questa tipologia di ossessione è frequentemente riferita al disgusto per liquidi organici propri e/o altrui come saliva, sudore, sperma e sangue.
Il disgusto si associa, inoltre, anche ad un’altro tipo di paura di contaminazione definita “mentale” che fa riferimento ad una percezione di “sporco interno” e si lega a rituali di lavaggio più generalizzati e, spesso, meno efficaci nel ridurre la percezione di disagio associato all’ossessione.

– Il perfezionismo patologico inteso come un assoluto bisogno che le cose vengano fatte in un determinato modo. Tale aspetto si lega a ciò che in termini clinici viene definita “Not Just Right Experience”, letteralmente, una sensazione di “non a posto” che, in alcune circostanze, spinge chi soffre di DOC ad impiegare molto tempo ed energie proprio nelcmettere in atto comportamenti, spesso riutilizzati, volti ad evitare di trovarsi a contatto con tale sensazione, giudicata come altamente disturbante ed incontrollabile.

La terapia del disturbo ossessivo compulsivo


Ad oggi, le due terapie giudicate come maggiormente efficaci per il trattamento del disturbo ossessivo compulsivo sono la terapia farmacologica e la psicoterapia cognitivo comportamentale.
In riferimento alla psicoterapia cognitivo-comportamentale, la tecnica che si rivela come maggiormente efficace per il trattamento del DOC è l’esposizione con prevenzione della risposta (Exposure and Response Prevention – ERP). 

L’ERP è una tecnica di origine comportamentale e consiste nella graduale esposizione agli stimoli in grado di generare il pensiero ossessivo associata ad una astensione dal ricorso ai comportamenti compulsivi sia mentali che comportamentali.
Per quanto riguarda la terapia farmacologica, la classe di farmaci che risulta maggiormente efficace nel trattamento delle ossessioni è quella degli inibitori selettivi della ricaptazione della Serotonina (SSRI).
Come per ogni farmaco, ovviamente anche gli SSRI presentano degli effetti collaterali. I più tipici si riferiscono alla sfera della diminuzione del desiderio sessuale (proprio questo effetto collaterale rappresenta la prima causa di interruzione della terapia farmacologica). La scelta di optare per una terapia piuttosto che l’altra o ad un’eventuale integrazione delle due, dipende da una varietà di fattori quali la motivazione al cambiamento, la durata e la cronicità del disturbo ed il grado di compromissione delle varie sfere di vita a seguito della comparsa del disturbo.

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PSICOTERAPIA Psicoterapia cognitivo-comportamentale

Ansia e Attacchi di Panico

La paura è considerata come la più primitiva e fondamentale delle emozioni umane. Fu Charles Darwin nel 1872, che per primo mise in evidenza le radici primitive della paura: “Possiamo credere che fin da un tempo remotissimo”, scriveva, “la paura sia stata espressa dall’uomo in una maniera quasi identica a quella di oggi”. La maggioranza degli altri animali della Terra, infatti, condivide con noi le reazioni involontarie alle minacce. Tali reazioni sono state selezionate nel corso dell’evoluzione per permetterci di sopravvivere. Gli occhi si spalancano, l’udito si acuisce, il cuore batte veloce, il respiro diventa affannoso o si blocca in gola. Tentiamo di nasconderci, o di fuggire, o ancora spinti dall’adrenalina ingaggiamo una lotta. Sono reazioni istintive, davanti ad una minaccia il nostro corpo prende il controllo e va avanti con il pilota automatico. Sembra semplice, ma nell’essere umano queste reazioni possono essere originate da diverse situazioni, più o meno razionalmente minacciose. Pensiamo per esempio a Charlie Brown, alla sua perenne aria stressata e alle sue preoccupazioni che spaziano dalla squadra di baseball, alla scuola, fino al suo strano bracchetto Snoopy. Charlie è sempre impegnato a prevenire i possibili problemi e questo lo lascia incessantemente agitato e logorato dall’ansia. 

Se la paura e la preoccupazione fanno capo a qualcosa di ben definito (una minaccia che abbiamo davanti o che presagiamo di affrontare), l’ansia ronza intorno al buffet dei problemi umani, posandosi su un problema ordinario e trasformandolo in una serie infinita di visioni catastrofiche. Tutti ne facciamo esperienza in continuazione seppure in misura e con frequenza molto variabile. L’ansia è una dimensione inevitabile del vivere umano con cui è necessario confrontarsi quotidianamente. È un fenomeno complesso, avvertito come una sensazione di attesa di qualcosa d’indefinito e spiacevole, una sorta di incombenza minacciosa, una irrequietezza psichica non identificabile né definibile con precisione. Forse ci vengono in mente certi personaggi sudaticci e balbettanti, come Jack Lemmon in A qualcuno piace caldo e Woody Allen (in praticamente tutti i suoi film), irritabili, debilitati e vacillanti che immaginano di continuo le peggiori situazioni possibili; viene facile concludere che l’ansia non fa al caso dei vincenti, non è per le persone felici. Tuttavia la reazione di allarme, come abbiamo visto nelle sue radici più primitive, ha una funzione adattiva. È ampiamente dimostrato il rapporto tra ansia e prestazione. Ad una livello basso di ansia corrisponde spesso una prestazione di livello altrettanto basso. Con l’aumentare dell’ansia aumenta la performance, migliora la qualità della prestazione fino ad un livello ottimale. Semmai è l’ulteriore aumento dell’ansia che comporta effetti negativi sulle prestazioni che decrescono progressivamente fino al punto di massima ansia che corrisponde all’impossibilità di ogni prestazione, alla paralisi. Entro certi limiti l’ansia, quindi, è utile, anzi, necessaria. 

Ansia eccessiva e Attacchi di Panico

L’ansia cessa la sua funzione vantaggiosa quando eccede, quando ci blocca nelle direzioni esistenziali di valore per noi. L’esperienza dell’ansia, infatti, può avere intensità variabili, da un lieve senso di irrequietezza e di indefinito malessere generale a uno stato di tensione interno fino a forme acute di panico. Nelle forme più lievi il soggetto si sente a disagio, inquieto, teso, insoddisfatto. Avverte un senso di tensione che non riesce a giustificare. Nelle forme più gravi si possono provare sensazioni di irrealtà e di sbandamento o di vertigine, come se le gambe non reggessero e si perdesse il senso dell’equilibrio. Il panico è la forma più acuta, più intensa e più nettamente circoscrivibile temporalmente. Ha spesso la caratteristica della crisi nel senso di una insorgenza rapida e improvvisa. Gli attacchi di panico sono infatti episodi repentina e soffocante paura, accompagnati da sintomi somatici, come tachicardia e sudorazione e da sintomi cognitivi. Pensieri come “Sto per morire”, “Sto per impazzire” attraversano spesso la mente di chi si trova a vivere un attacco di panico, che seppur di breve durata, risulta essere un evento molto destabilizzante. Questo porta in alcuni casi a sviluppare un vero e proprio Disturbo di Panico, con più episodi di panico, spesso inaspettati ma anche legati a situazioni specifiche. Dopo il primo attacco in genere è frequente, e comprensibile, che si sviluppi una forte preoccupazione che genera uno stato costante di allerta. Un pensiero comune in chi soffre di attacchi di panico è “Può risuccedere da un momento all’altro” e porta i soggetti a permanere in uno stato di tensione costante, in una sorta di ansia anticipatoria, di “paura della paura” che porta ad aumentare i livelli di stress e quindi favorire futuri attacchi. Si instaura quindi un circolo vizioso, dove è la “paura di avere un attacco di panico” che alimenta l’ansia e favorisce nuovi attacchi. 

Ci si si trova rapidamente intrappolati in questo intreccio che spesso si porta dietro la cosiddetta agorafobia, cioè l’ansia relativa all’essere in luoghi o situazioni dai quali sarebbe difficile o imbarazzante allontanarsi, o nei quali potrebbe non essere disponibile un aiuto, nel caso di un attacco di panico inaspettato. In questo caso il disturbo ci porta via un’altra importante fetta di libertà, inducendo evitamenti di situazioni, magari anche allettanti, e riducendo piano piano la nostra autonomia. 

Terapia Cognitivo Comportamentale degli attacchi di panico

L’esperienza personale di una forma così aggressiva di ansia spazia ovviamente molto, ma come per gli altri disturbi d’ansia, la Terapia Cognitivo-Comportamentale è un valido ed efficace aiuto per affrontare il Disturbo di Panico. Le linee guida internazionali suggeriscono infatti questo tipo di approccio come prima scelta per il Disturbo di Panico, raccomandando l’intervento cognitivo-comportamentale ancor prima dell’intervento farmacologico, valido affiancamento nei casi più gravi. 

Potremmo riassumere gli obiettivi della TCC per il disturbo di panico in alcune aree fondamentali. La prima riguarda l’identificazione di e l’intervento su quelle fonti di stress che la persona si trova ad affrontare nel momento di insorgenza del panico. Possono essere infatti molte le cause del disturbo, non ultime alcune situazioni di faticosa gestione, che tutti ci possiamo trovare ad affrontare (cambiamenti di vita, lutti, perdite, malattie fisiche). In seconda battuta risulta fondamentale aumentare la tolleranza alle emozioni disturbanti che il panico si porta con sé e alle sensazioni fisiche che risultano solitamente allarmanti. Per questo la Mindfulness risulta essere uno strumento molto valido, allenandoci ad assumente un atteggiamento di apertura all’esperienza che abbassa le sensazioni di allarme, facilita l’insorgenza di un graduale senso di sicurezza anche in presenza di vissuti disagevoli. Inoltre si lavora per indebolire l’interpretazione catastrofica di quegli stati fisici che arrivano inaspettatamente e generano preoccupazione al minimo segnale, incrementando al contempo la capacità di rivalutarli e depotenziarli. Infine si lavora per eliminare gradualmente l’evitamento e i comportamenti protettivi che come abbiamo visto minano la nostra possibilità di sentirci autonomi nella vita di tutti i giorni.

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PSICOTERAPIA Psicoterapia cognitivo-comportamentale

Le tre generazioni della psicoterapia cognitivo-comportamentale

Dalla ristrutturazione cognitiva all’accettazione:
Nuove frontiere della terapia cognitivo-comportamentale

Nel 1953 viene usato per la prima volta il termine “Behavoiur Therapy” (BT), in uno scambio epistolare tra psicologi americani (Skinner, Lindsley e Solomon) ma solo alla fine di quel decennio si comincia a delineare come scienza basata sui principi dell’apprendimento.

In aperta contrapposizione con l’imperante monopolio psicanalitico, così come le altre forme di psicoterapia emergenti in quel periodo (Gestalt, Palo Alto, sistemico-relazionale etc.), la BT cerca di affrontare i cambiamenti nel panorama clinico con un approccio sperimentale, misurabile e basato su una teoria dimostrabile

Si affronta quindi il comportamento misurabile, considerando i sintomi come risposte condizionate disadattive e prove di un apprendimento difettoso. 

Il condizionamento, inteso come processo di apprendimento di una data sequenza stimolo-risposta, diventa oggetto centrale di studio e di trattamento: si tratta il sintomo estinguendo le risposte condizionate disadattive e favorendo l’apprendimento di risposte condizionate desiderate. Ci si basa su fondamenti teorici dimostrabili e su risultati misurabili. 

Questa è la grande eredità della Behavior Therapy, la RICERCA, gli studi SPERIMENTALI, la MISURABILITÀ dei risultati e la RIPRODUCIBILITÀ dei protocolli di trattamento.

Le teorie del condizionamento classico (Pavlov, 1966) e del condizionamento operante (Thorndike, 1932 e Skinner, 1953) diventano la matrice sulla quale vengono costruite le tecniche di modificazione del comportamento. 

Dobbiamo a Mowrer (1960) lo sviluppo del modello eziologico delle fobie, che identifica il collegamento tra lo stimolo condizionato (l’oggetto della fobia) e la risposta condizionata di ansia, formatasi tramite condizionamento classico. Il sollievo dato dall’evitamento diventa il rinforzo negativo che mantiene operante l’apprendimento. 

Le tecniche sviluppate su queste basi teoriche mirano quindi ad indebolire il legame tra stimolo e risposta:

  • Le tecniche di rilassamento: riducono l’attivazione fisiologica, permettendo al soggetto di sperimentare nuovi comportamenti ed un maggior senso di autoefficacia nell’affrontare lo stimolo condizionato
  • La desensibilizzazione sistematica: affiancata alle tecniche di rilassamento di cui sopra, si basa sul principio di controcondizionamento.
  • Le tecniche di esposizione: esponendo il soggetto allo stimolo condizionato, gradualmente e con diverse modalità, estingue la reazione d’ansia tramite l’abituazione e interrompendo il rinforzo negativo dell’evitamento.
  • Le tecniche di modificazione del comportamento: riducono i comportamenti condizionati (disfunzionali) e aumentano, rinforzando, i comportamenti funzionali. 

A metà degli anni ‘60 si delinea un ulteriore cambiamento paradigmatico all’interno della psicologia sperimentale e con Albert Ellis e Aaron T. Beck si configura una concezione “mentalistica”, all’interno della quale i pensieri e le cognizioni non sono solo considerate oggetto di indagine psicologica ma diventano anche accessibili da un punto di vista empirico. Si abbandona il concetto di apprendimento rigidamente comportamentale per approdare ad un più flessibile inquadramento delle esperienze interne (pensieri ed emozioni) come parte integrante nel determinare il comportamento umano.

“La persona è prima di tutto un essere pensante, in grado di organizzare il comportamento e di modificarlo in base alle circostanze” (Bandura, 1969)

Ellis e Beck, parallelamente, si trovano a notare come nei loro pazienti certi pensieri che si trovavano ai margini della coscienza spesso precedessero intense reazioni emotive. Cercando un’alternativa alla spiegazione psicanalitica classica, si arriva a considerare le reazioni emotive come il risultato di specifiche cognizioni, chiamate PENSIERI AUTOMATICI. Questi pensieri non sono necessariamente consapevoli, cioè percepiti ad un livello di coscienza, ma possono essere identificati per mezzo di opportune domande da parte del terapeuta. Identificare questi pensieri, definiti “irrazionali” da Ellis, e riuscire a confutarli e prenderne le distanze diventa la chiave di volta della terapia cognitiva. Beck arriva ad illustrare come certi “errori cognitivi” siano specifici di certe tipologie di pazienti, e come per ognuno di questi esista una varietà di tecniche finalizzate a modificare i pensieri automatici negativi.

Le tecniche comportamentali si cominciano quindi ad arricchire con le tecniche cognitive, costruite attorno al principio cardine della teoria cognitiva secondo il quale il modo con cui le persone percepiscono la realtà influenza il loro modo di sentire e di comportarsi.

Le tecniche di desensibilizzazione, esposizione e modificazione del comportamento utilizzate nella terapia comportamentale vengono affiancate da nuove tecniche cognitive come l’identificazione dei pensieri automatici e le tecniche di ristrutturazione cognitiva dei pensieri e delle credenze.

I concetti di distorsione cognitiva e schema arricchiscono le basi teoriche del cognitivismo diventando target principali del trattamento.

Tecniche e protocolli si sono sviluppati e strutturati per essere efficaci con la maggior parte dei disturbi di Asse I, perdendo, tuttavia, un po’ di vista le problematiche legate ai tratti di personalità e ad altri aspetti dell’esistenza umana.

Per questo dagli anni ‘90 in poi si assiste ad un cambiamento di interesse, con l’avvento delle prime pubblicazioni sui disturbi di personalità e sulla relazione terapeutica in ambito cognitivo-comportamentale (Beck, Freeman, & Associates, 1990; Safran & Segal, 1990)

I terapeuti cognitivi sono abituati a mettere in discussione, a cercare “falle” nel sistema delle credenze e a sperimentarsi sulla ricerca di integrazione di nuove metodologie e modelli teorici.

Si delinea quindi un cambiamento paradigmatico, chiamato “terza ondata” o “terza generazione”.

L’attenzione si sposta dal contenuto al processo cognitivo, non arrivando a discutere la veridicità dei propri pensieri, incoraggiando un processo di accettazione e apertura nei confronti degli eventi psicologici, anche se dal contenuto “doloroso”.

La disponibilità verso le proprie esperienze interne rappresenta l’elemento di novità della terza generazione.

La realizzazione degli scopi vitali ed il perseguimento dei “valori personali” fanno da ulteriore cornice al processo di cambiamento.

Tre elementi caratterizzano la concettualizzazione dei problemi secondo gli approcci di terza generazione:

  • La relazione con le proprie esperienze interne: la fusione (Hayes et al., 1999) viene identificata come il processo mediante il quale le persone diventano indistinguibili dalle proprie transitorie esperienze interne (emozioni, pensieri, sensazioni fisiche) identificandosi con esse ed inevitabilmente desiderando che esse si trasformino in qualcosa di diverso da quello che effettivamente sono
  • L’evitamento esperienziale: è l’insieme delle strategie cognitive e comportamentali mirate a cambiare la forma o la frequenza delle esperienze interne negative ed è una delle principali cause della formazione e del mantenimento di molte forme psicopatologiche.                                                   La società occidentale supporta l’idea che la felicità sia più facilmente raggiungibile attraverso l’evitamento della sofferenza e che il controllo delle proprie esperienze interne sia altamente desiderabile. Il tentativo costante di controllare i pensieri negativi, le emozioni, le sensazioni e le immagini spiacevoli spesso, però, si accompagna ad un aumento paradossale della sofferenza psicologica.
  • Il restringimento del repertorio comportamentale: si verifica quando gli individui nel tentativo di non entrare in contatto con le esperienze interne negative rinunciano ad impegnarsi in azioni finalizzate a perseguire i valori e gli obiettivi personali.

Ci si propone quindi di cambiare la relazione che le persone hanno con le proprie esperienze interne, coltivando una relazione accettante e non giudicante nei confronti delle proprie emozioni, pensieri e sensazioni. Si impara a considerarli come qualcosa di transitorio, che non corrisponde necessariamente alla realtà, né tantomeno definisce chi siamo

L’accettazione diventa un concetto cardine all’interno degli approcci di terza generazione, definito come processo attivo di consapevolezza rispetto alle proprie esperienze interne, così come vengono sperimentate nel qui e ora.

L’elemento caratterizzante quindi non è tanto la modifica dei pensieri ed emozioni attraverso la disputa logica e razionale, quanto piuttosto la creazione di contesti che possano cambiare la relazione della persona con le proprie esperienze interne , indebolendo le catene causali che portano all’evitamento esperienziale e permettendole di agire in linea con i propri valori.

Gli obiettivi della Psicoterapia cognitivo-comportamentale vengono quindi ampliati nell’ottica di sviluppare nuove capacità che mirano a migliorare significativamente la qualità e la quantità di attività a cui il paziente attribuisce valore.

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PSICOTERAPIA Psicoterapia cognitivo-comportamentale

MINDFULNESS

La mindfulness è una pratica meditativa, che trae le sue radici storiche dalla tradizione buddhista.

Senza stare ad elencare le numerose forme di pratica meditativa presenti nel buddhismo, possiamo identificare la meditazione vipàssana, utilizzata per indurre nella mente uno stato di consapevolezza e comprensione della natura della realtà così com’è, come il riferimento principale delle pratiche di mindfulness.

Il significato della parola vipassana è “chiara visione” che può essere anche reso con l’espressione inglese “insight”.

La mindfulness consiste nel “porre attenzione in un modo particolare: intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante” (Kabat-Zinn, 1994). Si basa sull’affinamento della capacità di porre attenzione all’esperienza del momento, con un atteggiamento di apertura e accettazione al fine di raggiungere una consapevolezza costante e profonda e una maggior capacità di riconoscimento degli eventi mentali nel momento presente, lasciando emergere una facoltà intuitiva che va al di là del pensiero.

È quindi un esercizio sistematico di auto-osservazione non giudicante del flusso degli stimoli interni o esterni nel momento in cui sopraggiungono.

Contrastando l’impulso spontaneo a definire, valutare e giudicare l’esperienza, la mindfulness offre l’opportunità di imparare a non ricorrere automaticamente a processi di pensiero irrazionali e a non incorrere, quindi, nelle conseguenti reazioni emotive e comportamentali abituali.

Si sviluppa il decentramento, l’attenzione focalizzata e una maggiore stabilità della mente, mediante il distacco da abitudini, schemi e comportamenti condizionati.

Il primo a sperimentare l’applicazione clinica della mindfulness è stato John Kabat-Zinn che già alla fine degli anni 70 aveva elaborato il protocollo Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR), per la riduzione dello stress. Egli insegnava ai suoi pazienti l’antica pratica della meditazione, introducendo degli adattamenti tesi a renderla appropriata a individui sofferenti di dolori fisici e debilitati dagli stress della malattia e della vita.

L’efficacia del protocollo MBSR è stata verificata empiricamente, negli anni, attraverso studi controllati, nei quali si riscontra una duratura riduzione dei sintomi fisici e psicologici con profondi cambiamenti positivi negli atteggiamenti, nei comportamenti e nella percezione di sé, degli altri e del mondo. Esso trova applicazione in diversi campi della clinica, dai disturbi d’ansia, ai disturbi dissociativi, fino ad essere elemento fondamentale della terapia cognitivo-comportamentale del Disturbo Borderline di Personalità.

Il programma MBSR prevede un corso di 8 settimane, per gruppi dai 15 a 40 partecipanti, che si riuniscono a cadenza settimanale, con lo scopo di imparare a praticare la mindfulness. È aperto a persone con problemi sia fisici che psicologici, che vengono addestrati a osservare i propri pensieri e le proprie emozioni senza essere assorbiti dai loro contenuti. Vengono insegnate quattro forme specifiche di meditazione, atte a sviluppare la consapevolezza: il body scan, l’hata yoga, la sitting meditation e la walking meditation.

La Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT; Segal, Williams & Teasdale, 2002) è un adattamento del protocollo MBSR che integra le tecniche della Terapia Cognitiva con la pratica della mindfulness, con protocolli dedicati sia ai disturbi d’ansia che ai disturbi dell’umore.

Fabrizio Didonna (2012). Manuale clinico di Mindfulness. Franco Angeli.

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PSICOTERAPIA

PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA

L’ aumento delle conoscenze nel campo delle neuroscienze ha aperto la porta a nuove integrazioni cliniche, soprattutto nell’ambito della psicotraumatologia.

La Psicoterapia Sensomotoria emerge tra queste nuove prospettive teorico-cliniche come approccio integrato per la cura del trauma e non solo. Trova la sua espressione sia in tecniche di intervento basate sul colloquio sia in modalità più orientate al corpo, rivolgendo una particolare attenzione all’esperienza somatica come punto di accesso per l’elaborazione di eventi traumatici. 

Sviluppata a partire dagli anni ’80 da Pat Ogden, con il contributo del lavoro di Ron Kurtz, dei lavori nel campo dell’attaccamento, delle neuroscienze, della mindfulness e di approcci corporei come l’Hakomi Method e il Metodo Rolf di integrazione strutturale, la psicoterapia sensomotoria lavora integrando modelli psicoterapeutici tradizionali, come gli approcci psicanalitici e cognitivo comportamentali con procedure che mettono al centro della consapevolezza il corpo e i significati delle esperienze vissute radicati in esso. Il corpo diventa essenziale nel lavoro terapeutico poiché la persona “ricorda” gli eventi traumatici attraverso la riesperienza sensomotoria, con sintomi come disregolazione emotiva, sintomi fisici o sintomi dissociativi. 

Nell’approccio sensomotorio, considerando primariamente la componente fisiologica del trauma, si interviene sullo squilibrio tra il sistema simpatico e parasimpatico e sulla sofferenza indotta dall’iper-attivazione (o ipo-attivazione) dell’arousal o dal tentativo di difendersi da essa. Il lavoro sul corpo facilita il processamento delle memorie implicite, modifica gli apprendimenti procedurali e facilita la regolazione dell’arousal del sistema nervoso autonomo.

In persone esposte a traumi, sia unici che ripetuti, si verificano risposte di “falso allarme”. L’organismo, infatti, risponde ad una minaccia in maniera automatica, senza calibrare l’attivazione attivando strutture subcorticali, come l’amigdala, che innescano risposte stereotipate e generalizzate di difesa anche di fronte ad uno stimolo non minaccioso. Questa reazione tende a cronicizzarsi in soggetti gravemente traumatizzati, soprattutto se le esperienze avverse sono avvenute durante l’età dello sviluppo, riattivando reazioni di difesa che caratterizzano il modo di essere della persona stessa.

Nelle sedute di terapia sensomotoria si mettono da parte i contenuti, la narrazione, per concentrarsi sull’esperienza fisica sperimentata nel momento presente, attraverso la consapevolezza delle sensazioni fisiche per raggiungere la regolazione dell’arousal, punto nodale di quest’approccio.

Tutte le dimensioni dell’esperienza vengono incluse nel lavoro terapeutico, con un atteggiamento curioso ed interessato rivolto all’esperienza somatica procedendo in una direzione di conoscenza, piuttosto che di evitamento, di quei correlati fisiologici spesso considerati allarmanti ma che diventano invece parte di un’esperienza integrata e sempre più regolata.

La Psicoterapia Sensomotoria aiuta quindi i pazienti traumatizzati a regolare le loro esperienze fisiche in modo da percepire un senso di sé radicato, competente e orientato all’esperienza presente, occupandosi non solo del trauma propriamente detto, ma anche di tutte quelle situazioni, che vissute durante l’infanzia, possono aver lasciato traccia nel corpo o nei comportamenti, dirottando i pensieri e le emozioni. 

Allo stato attuale la Psicoterapia Sensomotoria rappresenta un trattamento specifico per il Disturbo Post-traumatico da Stress, per i disturbi post-traumatici complessi e i disturbi relativi allo sviluppo e alla storia di attaccamento.

Pat Ogden, Kekuni Minton, Clare Pain, (2012) “Il trauma e il corpo. Manuale di Psicoterapia Sensomotoria”, Istituto Scienze Cognitive Editore

Pat Ogden, Janina Fisher (2016) “Psicoterapia Sensomotoria. Interventi per il trauma e l’attaccamento”, Raffaello Cortina Editore

D.J. Siegel, “Mindfulness e Cervello” (2009). Raffaello Cortina Editore

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Psicoterapia cognitivo-comportamentale

COMPASSION FOCUSED THERAPY

La “Terapia Focalizzata sulla Compassione” – CFT (Gilbert, 2007, 2010) nasce dall’incontro tra l’insegnamento buddhista, le tecniche di psicoterapia cognitivo-comportamentale e un approccio evoluzionistico alle neuroscienze e alla psicologia sociale connesso alla psicologia e alla neurofisiologia del comportamento di accudimento, sia del dare che del ricevere.

Offre una concettualizzazione della psicopatologia e del suo mantenimento che si basa sulle dinamiche di attivazione di alcuni sistemi di regolazione emotiva, proponendo una visione del processo di cambiamento che si basa sulla modulazione di sistemi motivazionali e affettivi basati sull’accudimento e sul care-giving

La CFT suggerisce che possa esserci un problema in un sistema emotivo implicito, che si è evoluto nei mammiferi con il sistema di accudimento, che da origine alla sensazione di tranquillità, sicurezza e connessione. L’impossibilità di accedere a tale sistema manterrebbe l’ambiente emotivo invariato, freddo e distaccato impedendo di dare una connotazione più calda e amorevole (“compassionevole”) ai propri pensieri alternativi e alle proprie immagini mentali. In particolare persone che vivono alti livelli di vergogna o autocritica avrebbero una specifica difficoltà nell’accedere a sentimenti di calore verso se stesse, compassione e rassicurazione.

Nel cervello sono presenti tre sistemi regolatori delle emozioni

  • sistema focalizzato sulla minacce e la protezione di sé (threat system)
  • sistema focalizzato sul raggiungimento degli scopi (drive, seeking and acquisition system)
  • sistema focalizzato sull’affiliazione e rassicurazione (Contentment, soothing and affiliative system), definito da Gilbert “sistema calmante”

Lo scopo principale è quello di facilitare lo sviluppo e l’accesso al soothing system per bilanciare l’azione degli altri due. Questo tipo di azione è finalizzato il Compassionate Mind Training, cioè una serie di esercizi volti a costruire una capacità compassionevole attraverso:

  • lo sviluppo di una capacità interna di fronteggiare i processi (inutili) di minaccia e desiderio
  • la costruzione di una capacità di esperire emozioni positive, in particolare affiliazione e contentezza
  • l’utilizzo di interventi centrati (ad esempio) su respiro rilassante, training sulla focalizzazione dell’attenzione, esplorazione dei bias cognitivi ed emotivi, evitamento comportamentale, uso dell’imagery e della focalizzazione senso-motoria

Paul P. Gilbert (2012). La terapia focalizzata sulla compassione. Franco Angeli.

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Psicoterapia cognitivo-comportamentale

ACCEPTANCE AND COMMITMENT THERAPY

L’Acceptance and commitment Therapy – ACT (Hayes, Strosahl, & Wilson, 1999) è una delle terapie cognitivo-comportamentali di terza generazione.

I principali obiettivi dell’ACT sono quelli di incrementare la flessibilità psicologica e l’accettazione, aumentare le capacità di mindfulness e modificare il comportamento. Con l’espressione flessibilità psicologica ci si riferisce alla capacità dell’individuo di essere pienamente in contatto con il momento presente, e, basandosi su quello che la situazione permette, di cambiare o persistere in comportamenti che perseguono i valori che sono stati scelti come centrali nella propria vita.

Al cuore dell’ACT c’è la concezione che la sofferenza psicologica sia solitamente causata dall’interfaccia tra linguaggio, cognizione e controllo dell’esperienza diretta. L’inflessibilità psicologica, cioè il repertorio di comportamenti disfunzionali che presenta la persona sofferente, sarebbe il frutto di strategie di evitamento dell’esperienza interna (pensieri ed emozioni) e di fusione con i propri pensieri (fusione cognitiva), di attaccamento al sé concettualizzato, della perdita di contatto con il momento presente e del risultante fallimento nell’intraprendere i necessari passi comportamentali in accordo con i propri valori personali. Questi elementi sono i sei processi che costituiscono l’hexaflex, o esagono della flessibilità psicologica, il modello concettuale psicopatologico e clinico su cui si fonda l’ACT

L’ACT, basandosi su ricerche sui processi linguistici di base (basate su una teoria del linguaggio e della cognizione umana chiamata Relational Frame Theory, RFT), sostiene che il linguaggio intrappoli i pazienti dentro inutili tentativi di combattere contro la sofferenza interiore, e che tentare di cambiare direttamente pensieri ed emozioni che creano difficoltà sia una modalità controproducente di coping. Essa prova a scardinare questi meccanismi attraverso un uso funzionale del linguaggio: usando metafore, paradossi ed esercizi esperienziali (la componente tecnica e comportamentale dell’ACT), il terapeuta guida il paziente ad instaurare un contatto sano con quei pensieri, sentimenti ed emozioni che sono stati fino a quel momento temuti o evitati. Si impara quindi a ricontestualizzare ed accettare questi eventi interni, sviluppando quindi una maggiore consapevolezza verso i propri valori personali e impegnandosi nei cambiamenti comportamentali necessari.

La Acceptance and Commitment Therapy (ACT), vanta numerosi studi di efficacia, che la rendono indicata per vari disturbi, come i disturbi d’ansia e dell’umore, le dipendenze, il dolore cronico, condizioni legate a malattie croniche e i disturbi psicotici.

Russ Harris (2011). Fare Act. Una guida pratica per professionisti all’Acceptance and Commitment Therapy. Franco Angeli