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PSICOTERAPIA Psicoterapia cognitivo-comportamentale

Rimuginio: La spirale del pensiero ripetitivo

Il Rimuginio è un processo di pensiero utilizzato di frequente da chi soffre di disturbi d’ansia anche se, in piccole dosi, vi fanno ricorso anche le persone che non manifestano particolari problematiche psicologiche.

A chi non è mai capitato di trovarsi assorto nell’anticipare gli esiti di alcuni eventi che ancora non si sono verificati e che forse non si verificheranno mai?

Tali eventi possono riguardare catastrofi naturali, disgrazie economiche, la perdita di una persona cara, ma anche altre situazioni di vita indubbiamente meno drammatiche che però potrebbero in qualche modo metterci in difficoltà.

Perché rimuginiamo?

Tendenzialmente, il motivo per cui le persone reputano utile preoccuparsi di futuri eventi negativi più o meno probabili, riguarda la loro percezione circa la probabilità di poter in qualche modo prevenire o scongiurare il verificarsi di tali eventi o, qualora la prevenzione non sia possibile, di potersi preparare ad affrontare l’imminente catastrofe.

Il principio che sta alla base di questo ragionamento, purtroppo errato, è che il semplice ipotizzare eventuali scenari ed immaginare il loro dipanarsi nel corso del tempo abbia un qualche potere nel rendere più o meno probabili quegli stessi scenari oppure che l’immaginare il proprio stato d’animo conseguente al verificarsi di quello scenario, possa renderci maggiormente in grado di affrontarlo nella realtà.

In termini tecnici, queste assunzioni vengono definite da Adrian Wells, un noto psicologo che da tempo si occupa dei processi rimuginativi, “meta-credenze positive circa il rimuginio”.

Che cos’è il rimuginio?

Contrariamente a ciò che le nostre meta-credenze positive ci portano a pensare, il rimuginio è in realtà  una tipologia di pensiero negativo, ciclico e ricorrente.

Esso è negativo poiché si concentra strettamente su scenari negativi e catastrofici, ciclico e ricorrente poiché tende a ripetersi  senza tuttavia fornire all’individuo nessun piano d’azione. 

Il Rimuginio è infatti un tipo di ragionamento molto vago ed astratto e, sebbene renda possibile immaginare con dovizia di particolari uno scenario temuto, esso di fatto non fornisce alcuna soluzione utile per prevenirlo o risolverlo.

Facciamo un esempio: pensiamo ad uno studente che a due settimane da un importante esame, inizia a preoccuparsi di non riuscire a superare la prova.

Lo studente comincerà a rimuginare su questa ipotesi e, in linea con l’importanza che quell’esame ha in relazione alla sua carriera universitaria, formulerà i seguenti pensieri: “Se fallirò all’esame starò malissimo!”, “Non riuscirò più a riprendermi”, “Tutti mi giudicheranno come un buono a nulla”, “Sarò talmente disperato che non potrò concentrarmi sulle altre materie”, “Non riuscirò a finire l’università”, “Non potrò fare il lavoro per cui ho così duramente lavorato fino ad ora”, “Sarà la mia rovina!”.

Tali pensieri potranno poi essere accompagnati anche da immagini più o meno elaborate del volto deluso del professore durante la prova, di sé stesso a distanza di anni, rannicchiato in un angolo a soffrire per tutto ciò che è stato perduto e chi più ne ha più ne metta.

L’elenco dei pensieri rimuginativi e delle immagini mentali associate potrebbe proseguire all’infinito e, tutti quanti, manterrebbero le stesse implicite caratteristiche di negatività e di assenza della formulazione di strategie utili alla prevenzione o al fronteggiamento della situazione immaginata.

Il rimuginio come processo dannoso

Oltre ad essere del tutto inutile, il rimuginio può rivelarsi oltretutto dannoso poiché, di fatto, blocca l’accesso a strategie più utili e funzionali al fronteggiamento della situazione temuta.

Torniamo un attimo all’esempio del nostro studente. Egli, con buona probabilità passerà ore ed ore ad immaginare tutti i possibili scenari catastrofici conseguenti alla sua bocciatura convinto che questo possa essergli in qualche modo utile.

Quelle stesse ore però verranno di fatto sottratte al tempo utile che lo studente ha ancora per prepararsi al suo esame aumentando, in ultima analisi, il rischio che la prova non venga di fatto superata.

Non solo, concentrandosi unicamente sugli esiti negativi dell’evento, l’ansia anticipatoria associata ad esso tenderà inevitabilmente ad aumentare, inficiando la concentrazione e la motivazione verso quella sfida.

Il circolo vizioso

Nel momento in cui il nostro studente si renderà conto che rimuginando nel tentativo di ridurre la propria ansia e rendersi più preparato ha di fatto perso molto tempo prezioso ed aumentato il proprio stato di allerta, sarà ancora più spaventato e, con buona probabilità, cercherà in tutti i modi di smettere di rimuginare. 

A questo punto egli si imporrà di non pensare a tutte quelle fastidiose immagini ottenendo però il risultato esattamente opposto. Più tenterà di controllare la propria mente scacciando i pensieri rimuginativi, più quelli stessi pensieri diventeranno invadenti ed intrusivi. 

Provate voi stessi: mentre siete seduti a leggere questo articolo ripetetevi intensamente di non pensare ad un pinguino che cammina tranquillo in mezzo alla neve.

Qual è il risultato? Non è affatto facile rimanere concentrati sul testo, vero? 

Questo accade perché, nel momento in cui imponete al vostro cervello di non prestare attenzione ad un determinato stimolo, gli state di fatto fornendo implicitamente quello stesso stimolo e lui non potrà fare a meno di portarlo alla vostra coscienza.

La stessa cosa accade nel momento in cui ci imponiamo di scacciare i pensieri rimuginativi: quei pensieri diventeranno di fatto più vividi finendo per interferire ancora di più con le nostre attività.

È attraverso questo meccanismo che, a seguito dell’attivazione delle meta-credenze positive circa il rimuginio, si attivano delle credenze totalmente opposte, relative alla pericolosità ed all’incontrollabilità del processo rimuginativo. Tali credenze, definite da Wells “meta-credenze negative sul rimuginio” non fanno altro che incentivare i tentativi di controllo del pensiero, finendo in ultima analisi per incrementare ancor più la loro presenza e facendoci cadere vittime di un vero e proprio circolo vizioso.

Come uscire dalla trappola?

Sebbene il rimuginio sia una modalità di pensiero piuttosto frequente, fortunatamente, non tutte le persone la utilizzano con un’intensità tale da renderla dannosa o da impedire una buona qualità di vita. 

Non è purtroppo così per coloro che soffrono di particolari disturbi come, ad esempio, il disturbo ossessivo-compulsivo ed i disturbi d’ansia, tra cui, per frequenza di utilizzo del pensiero rimuginativo, spicca il disturbo d’ansia generalizzato. In questa particolare condizione, infatti, il nodo centrale del problema sta proprio nel ricorso costante a strategie disfunzionali di anticipazione di eventuali eventi negativi o catastrofici che, sulle lunghe distanze, portano chi ne soffre a vivere in uno stato di allarme costante da cui sembra impossibile trovare una via d’uscita.

Per il disturbo d’ansia generalizzato, così come per le altre condizioni associate a marcati processi rimuginativi, è invece possibile svolgere un tipo di intervento in grado di ridurre tali meccanismi fornendo contemporaneamente nuovi metodi, più funzionali, per approcciarsi tanto ai problemi reali quanto alle catastrofi immaginate. Questa tipologia di intervento, inizialmente formulata e proposta da Adrian Wells, è chiamata “terapia metacognitiva”. Essa si basa proprio sull’individuazione e sulla successiva modificazione delle meta-credenze positive e di quelle negative coinvolte nella genesi e nel mantenimento dei processi rimuginativi.

Wells, A. (2012). Terapia metacognitiva dei disturbi d’ansia e della depressione. Eclipsi.

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Ansia e Attacchi di Panico

La paura è considerata come la più primitiva e fondamentale delle emozioni umane. Fu Charles Darwin nel 1872, che per primo mise in evidenza le radici primitive della paura: “Possiamo credere che fin da un tempo remotissimo”, scriveva, “la paura sia stata espressa dall’uomo in una maniera quasi identica a quella di oggi”. La maggioranza degli altri animali della Terra, infatti, condivide con noi le reazioni involontarie alle minacce. Tali reazioni sono state selezionate nel corso dell’evoluzione per permetterci di sopravvivere. Gli occhi si spalancano, l’udito si acuisce, il cuore batte veloce, il respiro diventa affannoso o si blocca in gola. Tentiamo di nasconderci, o di fuggire, o ancora spinti dall’adrenalina ingaggiamo una lotta. Sono reazioni istintive, davanti ad una minaccia il nostro corpo prende il controllo e va avanti con il pilota automatico. Sembra semplice, ma nell’essere umano queste reazioni possono essere originate da diverse situazioni, più o meno razionalmente minacciose. Pensiamo per esempio a Charlie Brown, alla sua perenne aria stressata e alle sue preoccupazioni che spaziano dalla squadra di baseball, alla scuola, fino al suo strano bracchetto Snoopy. Charlie è sempre impegnato a prevenire i possibili problemi e questo lo lascia incessantemente agitato e logorato dall’ansia. 

Se la paura e la preoccupazione fanno capo a qualcosa di ben definito (una minaccia che abbiamo davanti o che presagiamo di affrontare), l’ansia ronza intorno al buffet dei problemi umani, posandosi su un problema ordinario e trasformandolo in una serie infinita di visioni catastrofiche. Tutti ne facciamo esperienza in continuazione seppure in misura e con frequenza molto variabile. L’ansia è una dimensione inevitabile del vivere umano con cui è necessario confrontarsi quotidianamente. È un fenomeno complesso, avvertito come una sensazione di attesa di qualcosa d’indefinito e spiacevole, una sorta di incombenza minacciosa, una irrequietezza psichica non identificabile né definibile con precisione. Forse ci vengono in mente certi personaggi sudaticci e balbettanti, come Jack Lemmon in A qualcuno piace caldo e Woody Allen (in praticamente tutti i suoi film), irritabili, debilitati e vacillanti che immaginano di continuo le peggiori situazioni possibili; viene facile concludere che l’ansia non fa al caso dei vincenti, non è per le persone felici. Tuttavia la reazione di allarme, come abbiamo visto nelle sue radici più primitive, ha una funzione adattiva. È ampiamente dimostrato il rapporto tra ansia e prestazione. Ad una livello basso di ansia corrisponde spesso una prestazione di livello altrettanto basso. Con l’aumentare dell’ansia aumenta la performance, migliora la qualità della prestazione fino ad un livello ottimale. Semmai è l’ulteriore aumento dell’ansia che comporta effetti negativi sulle prestazioni che decrescono progressivamente fino al punto di massima ansia che corrisponde all’impossibilità di ogni prestazione, alla paralisi. Entro certi limiti l’ansia, quindi, è utile, anzi, necessaria. 

Ansia eccessiva e Attacchi di Panico

L’ansia cessa la sua funzione vantaggiosa quando eccede, quando ci blocca nelle direzioni esistenziali di valore per noi. L’esperienza dell’ansia, infatti, può avere intensità variabili, da un lieve senso di irrequietezza e di indefinito malessere generale a uno stato di tensione interno fino a forme acute di panico. Nelle forme più lievi il soggetto si sente a disagio, inquieto, teso, insoddisfatto. Avverte un senso di tensione che non riesce a giustificare. Nelle forme più gravi si possono provare sensazioni di irrealtà e di sbandamento o di vertigine, come se le gambe non reggessero e si perdesse il senso dell’equilibrio. Il panico è la forma più acuta, più intensa e più nettamente circoscrivibile temporalmente. Ha spesso la caratteristica della crisi nel senso di una insorgenza rapida e improvvisa. Gli attacchi di panico sono infatti episodi repentina e soffocante paura, accompagnati da sintomi somatici, come tachicardia e sudorazione e da sintomi cognitivi. Pensieri come “Sto per morire”, “Sto per impazzire” attraversano spesso la mente di chi si trova a vivere un attacco di panico, che seppur di breve durata, risulta essere un evento molto destabilizzante. Questo porta in alcuni casi a sviluppare un vero e proprio Disturbo di Panico, con più episodi di panico, spesso inaspettati ma anche legati a situazioni specifiche. Dopo il primo attacco in genere è frequente, e comprensibile, che si sviluppi una forte preoccupazione che genera uno stato costante di allerta. Un pensiero comune in chi soffre di attacchi di panico è “Può risuccedere da un momento all’altro” e porta i soggetti a permanere in uno stato di tensione costante, in una sorta di ansia anticipatoria, di “paura della paura” che porta ad aumentare i livelli di stress e quindi favorire futuri attacchi. Si instaura quindi un circolo vizioso, dove è la “paura di avere un attacco di panico” che alimenta l’ansia e favorisce nuovi attacchi. 

Ci si si trova rapidamente intrappolati in questo intreccio che spesso si porta dietro la cosiddetta agorafobia, cioè l’ansia relativa all’essere in luoghi o situazioni dai quali sarebbe difficile o imbarazzante allontanarsi, o nei quali potrebbe non essere disponibile un aiuto, nel caso di un attacco di panico inaspettato. In questo caso il disturbo ci porta via un’altra importante fetta di libertà, inducendo evitamenti di situazioni, magari anche allettanti, e riducendo piano piano la nostra autonomia. 

Terapia Cognitivo Comportamentale degli attacchi di panico

L’esperienza personale di una forma così aggressiva di ansia spazia ovviamente molto, ma come per gli altri disturbi d’ansia, la Terapia Cognitivo-Comportamentale è un valido ed efficace aiuto per affrontare il Disturbo di Panico. Le linee guida internazionali suggeriscono infatti questo tipo di approccio come prima scelta per il Disturbo di Panico, raccomandando l’intervento cognitivo-comportamentale ancor prima dell’intervento farmacologico, valido affiancamento nei casi più gravi. 

Potremmo riassumere gli obiettivi della TCC per il disturbo di panico in alcune aree fondamentali. La prima riguarda l’identificazione di e l’intervento su quelle fonti di stress che la persona si trova ad affrontare nel momento di insorgenza del panico. Possono essere infatti molte le cause del disturbo, non ultime alcune situazioni di faticosa gestione, che tutti ci possiamo trovare ad affrontare (cambiamenti di vita, lutti, perdite, malattie fisiche). In seconda battuta risulta fondamentale aumentare la tolleranza alle emozioni disturbanti che il panico si porta con sé e alle sensazioni fisiche che risultano solitamente allarmanti. Per questo la Mindfulness risulta essere uno strumento molto valido, allenandoci ad assumente un atteggiamento di apertura all’esperienza che abbassa le sensazioni di allarme, facilita l’insorgenza di un graduale senso di sicurezza anche in presenza di vissuti disagevoli. Inoltre si lavora per indebolire l’interpretazione catastrofica di quegli stati fisici che arrivano inaspettatamente e generano preoccupazione al minimo segnale, incrementando al contempo la capacità di rivalutarli e depotenziarli. Infine si lavora per eliminare gradualmente l’evitamento e i comportamenti protettivi che come abbiamo visto minano la nostra possibilità di sentirci autonomi nella vita di tutti i giorni.

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Le tre generazioni della psicoterapia cognitivo-comportamentale

Dalla ristrutturazione cognitiva all’accettazione:
Nuove frontiere della terapia cognitivo-comportamentale

Nel 1953 viene usato per la prima volta il termine “Behavoiur Therapy” (BT), in uno scambio epistolare tra psicologi americani (Skinner, Lindsley e Solomon) ma solo alla fine di quel decennio si comincia a delineare come scienza basata sui principi dell’apprendimento.

In aperta contrapposizione con l’imperante monopolio psicanalitico, così come le altre forme di psicoterapia emergenti in quel periodo (Gestalt, Palo Alto, sistemico-relazionale etc.), la BT cerca di affrontare i cambiamenti nel panorama clinico con un approccio sperimentale, misurabile e basato su una teoria dimostrabile

Si affronta quindi il comportamento misurabile, considerando i sintomi come risposte condizionate disadattive e prove di un apprendimento difettoso. 

Il condizionamento, inteso come processo di apprendimento di una data sequenza stimolo-risposta, diventa oggetto centrale di studio e di trattamento: si tratta il sintomo estinguendo le risposte condizionate disadattive e favorendo l’apprendimento di risposte condizionate desiderate. Ci si basa su fondamenti teorici dimostrabili e su risultati misurabili. 

Questa è la grande eredità della Behavior Therapy, la RICERCA, gli studi SPERIMENTALI, la MISURABILITÀ dei risultati e la RIPRODUCIBILITÀ dei protocolli di trattamento.

Le teorie del condizionamento classico (Pavlov, 1966) e del condizionamento operante (Thorndike, 1932 e Skinner, 1953) diventano la matrice sulla quale vengono costruite le tecniche di modificazione del comportamento. 

Dobbiamo a Mowrer (1960) lo sviluppo del modello eziologico delle fobie, che identifica il collegamento tra lo stimolo condizionato (l’oggetto della fobia) e la risposta condizionata di ansia, formatasi tramite condizionamento classico. Il sollievo dato dall’evitamento diventa il rinforzo negativo che mantiene operante l’apprendimento. 

Le tecniche sviluppate su queste basi teoriche mirano quindi ad indebolire il legame tra stimolo e risposta:

  • Le tecniche di rilassamento: riducono l’attivazione fisiologica, permettendo al soggetto di sperimentare nuovi comportamenti ed un maggior senso di autoefficacia nell’affrontare lo stimolo condizionato
  • La desensibilizzazione sistematica: affiancata alle tecniche di rilassamento di cui sopra, si basa sul principio di controcondizionamento.
  • Le tecniche di esposizione: esponendo il soggetto allo stimolo condizionato, gradualmente e con diverse modalità, estingue la reazione d’ansia tramite l’abituazione e interrompendo il rinforzo negativo dell’evitamento.
  • Le tecniche di modificazione del comportamento: riducono i comportamenti condizionati (disfunzionali) e aumentano, rinforzando, i comportamenti funzionali. 

A metà degli anni ‘60 si delinea un ulteriore cambiamento paradigmatico all’interno della psicologia sperimentale e con Albert Ellis e Aaron T. Beck si configura una concezione “mentalistica”, all’interno della quale i pensieri e le cognizioni non sono solo considerate oggetto di indagine psicologica ma diventano anche accessibili da un punto di vista empirico. Si abbandona il concetto di apprendimento rigidamente comportamentale per approdare ad un più flessibile inquadramento delle esperienze interne (pensieri ed emozioni) come parte integrante nel determinare il comportamento umano.

“La persona è prima di tutto un essere pensante, in grado di organizzare il comportamento e di modificarlo in base alle circostanze” (Bandura, 1969)

Ellis e Beck, parallelamente, si trovano a notare come nei loro pazienti certi pensieri che si trovavano ai margini della coscienza spesso precedessero intense reazioni emotive. Cercando un’alternativa alla spiegazione psicanalitica classica, si arriva a considerare le reazioni emotive come il risultato di specifiche cognizioni, chiamate PENSIERI AUTOMATICI. Questi pensieri non sono necessariamente consapevoli, cioè percepiti ad un livello di coscienza, ma possono essere identificati per mezzo di opportune domande da parte del terapeuta. Identificare questi pensieri, definiti “irrazionali” da Ellis, e riuscire a confutarli e prenderne le distanze diventa la chiave di volta della terapia cognitiva. Beck arriva ad illustrare come certi “errori cognitivi” siano specifici di certe tipologie di pazienti, e come per ognuno di questi esista una varietà di tecniche finalizzate a modificare i pensieri automatici negativi.

Le tecniche comportamentali si cominciano quindi ad arricchire con le tecniche cognitive, costruite attorno al principio cardine della teoria cognitiva secondo il quale il modo con cui le persone percepiscono la realtà influenza il loro modo di sentire e di comportarsi.

Le tecniche di desensibilizzazione, esposizione e modificazione del comportamento utilizzate nella terapia comportamentale vengono affiancate da nuove tecniche cognitive come l’identificazione dei pensieri automatici e le tecniche di ristrutturazione cognitiva dei pensieri e delle credenze.

I concetti di distorsione cognitiva e schema arricchiscono le basi teoriche del cognitivismo diventando target principali del trattamento.

Tecniche e protocolli si sono sviluppati e strutturati per essere efficaci con la maggior parte dei disturbi di Asse I, perdendo, tuttavia, un po’ di vista le problematiche legate ai tratti di personalità e ad altri aspetti dell’esistenza umana.

Per questo dagli anni ‘90 in poi si assiste ad un cambiamento di interesse, con l’avvento delle prime pubblicazioni sui disturbi di personalità e sulla relazione terapeutica in ambito cognitivo-comportamentale (Beck, Freeman, & Associates, 1990; Safran & Segal, 1990)

I terapeuti cognitivi sono abituati a mettere in discussione, a cercare “falle” nel sistema delle credenze e a sperimentarsi sulla ricerca di integrazione di nuove metodologie e modelli teorici.

Si delinea quindi un cambiamento paradigmatico, chiamato “terza ondata” o “terza generazione”.

L’attenzione si sposta dal contenuto al processo cognitivo, non arrivando a discutere la veridicità dei propri pensieri, incoraggiando un processo di accettazione e apertura nei confronti degli eventi psicologici, anche se dal contenuto “doloroso”.

La disponibilità verso le proprie esperienze interne rappresenta l’elemento di novità della terza generazione.

La realizzazione degli scopi vitali ed il perseguimento dei “valori personali” fanno da ulteriore cornice al processo di cambiamento.

Tre elementi caratterizzano la concettualizzazione dei problemi secondo gli approcci di terza generazione:

  • La relazione con le proprie esperienze interne: la fusione (Hayes et al., 1999) viene identificata come il processo mediante il quale le persone diventano indistinguibili dalle proprie transitorie esperienze interne (emozioni, pensieri, sensazioni fisiche) identificandosi con esse ed inevitabilmente desiderando che esse si trasformino in qualcosa di diverso da quello che effettivamente sono
  • L’evitamento esperienziale: è l’insieme delle strategie cognitive e comportamentali mirate a cambiare la forma o la frequenza delle esperienze interne negative ed è una delle principali cause della formazione e del mantenimento di molte forme psicopatologiche.                                                   La società occidentale supporta l’idea che la felicità sia più facilmente raggiungibile attraverso l’evitamento della sofferenza e che il controllo delle proprie esperienze interne sia altamente desiderabile. Il tentativo costante di controllare i pensieri negativi, le emozioni, le sensazioni e le immagini spiacevoli spesso, però, si accompagna ad un aumento paradossale della sofferenza psicologica.
  • Il restringimento del repertorio comportamentale: si verifica quando gli individui nel tentativo di non entrare in contatto con le esperienze interne negative rinunciano ad impegnarsi in azioni finalizzate a perseguire i valori e gli obiettivi personali.

Ci si propone quindi di cambiare la relazione che le persone hanno con le proprie esperienze interne, coltivando una relazione accettante e non giudicante nei confronti delle proprie emozioni, pensieri e sensazioni. Si impara a considerarli come qualcosa di transitorio, che non corrisponde necessariamente alla realtà, né tantomeno definisce chi siamo

L’accettazione diventa un concetto cardine all’interno degli approcci di terza generazione, definito come processo attivo di consapevolezza rispetto alle proprie esperienze interne, così come vengono sperimentate nel qui e ora.

L’elemento caratterizzante quindi non è tanto la modifica dei pensieri ed emozioni attraverso la disputa logica e razionale, quanto piuttosto la creazione di contesti che possano cambiare la relazione della persona con le proprie esperienze interne , indebolendo le catene causali che portano all’evitamento esperienziale e permettendole di agire in linea con i propri valori.

Gli obiettivi della Psicoterapia cognitivo-comportamentale vengono quindi ampliati nell’ottica di sviluppare nuove capacità che mirano a migliorare significativamente la qualità e la quantità di attività a cui il paziente attribuisce valore.

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PSICOTERAPIA Psicoterapia cognitivo-comportamentale

MINDFULNESS

La mindfulness è una pratica meditativa, che trae le sue radici storiche dalla tradizione buddhista.

Senza stare ad elencare le numerose forme di pratica meditativa presenti nel buddhismo, possiamo identificare la meditazione vipàssana, utilizzata per indurre nella mente uno stato di consapevolezza e comprensione della natura della realtà così com’è, come il riferimento principale delle pratiche di mindfulness.

Il significato della parola vipassana è “chiara visione” che può essere anche reso con l’espressione inglese “insight”.

La mindfulness consiste nel “porre attenzione in un modo particolare: intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante” (Kabat-Zinn, 1994). Si basa sull’affinamento della capacità di porre attenzione all’esperienza del momento, con un atteggiamento di apertura e accettazione al fine di raggiungere una consapevolezza costante e profonda e una maggior capacità di riconoscimento degli eventi mentali nel momento presente, lasciando emergere una facoltà intuitiva che va al di là del pensiero.

È quindi un esercizio sistematico di auto-osservazione non giudicante del flusso degli stimoli interni o esterni nel momento in cui sopraggiungono.

Contrastando l’impulso spontaneo a definire, valutare e giudicare l’esperienza, la mindfulness offre l’opportunità di imparare a non ricorrere automaticamente a processi di pensiero irrazionali e a non incorrere, quindi, nelle conseguenti reazioni emotive e comportamentali abituali.

Si sviluppa il decentramento, l’attenzione focalizzata e una maggiore stabilità della mente, mediante il distacco da abitudini, schemi e comportamenti condizionati.

Il primo a sperimentare l’applicazione clinica della mindfulness è stato John Kabat-Zinn che già alla fine degli anni 70 aveva elaborato il protocollo Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR), per la riduzione dello stress. Egli insegnava ai suoi pazienti l’antica pratica della meditazione, introducendo degli adattamenti tesi a renderla appropriata a individui sofferenti di dolori fisici e debilitati dagli stress della malattia e della vita.

L’efficacia del protocollo MBSR è stata verificata empiricamente, negli anni, attraverso studi controllati, nei quali si riscontra una duratura riduzione dei sintomi fisici e psicologici con profondi cambiamenti positivi negli atteggiamenti, nei comportamenti e nella percezione di sé, degli altri e del mondo. Esso trova applicazione in diversi campi della clinica, dai disturbi d’ansia, ai disturbi dissociativi, fino ad essere elemento fondamentale della terapia cognitivo-comportamentale del Disturbo Borderline di Personalità.

Il programma MBSR prevede un corso di 8 settimane, per gruppi dai 15 a 40 partecipanti, che si riuniscono a cadenza settimanale, con lo scopo di imparare a praticare la mindfulness. È aperto a persone con problemi sia fisici che psicologici, che vengono addestrati a osservare i propri pensieri e le proprie emozioni senza essere assorbiti dai loro contenuti. Vengono insegnate quattro forme specifiche di meditazione, atte a sviluppare la consapevolezza: il body scan, l’hata yoga, la sitting meditation e la walking meditation.

La Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT; Segal, Williams & Teasdale, 2002) è un adattamento del protocollo MBSR che integra le tecniche della Terapia Cognitiva con la pratica della mindfulness, con protocolli dedicati sia ai disturbi d’ansia che ai disturbi dell’umore.

Fabrizio Didonna (2012). Manuale clinico di Mindfulness. Franco Angeli.

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PSICOTERAPIA

PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA

L’ aumento delle conoscenze nel campo delle neuroscienze ha aperto la porta a nuove integrazioni cliniche, soprattutto nell’ambito della psicotraumatologia.

La Psicoterapia Sensomotoria emerge tra queste nuove prospettive teorico-cliniche come approccio integrato per la cura del trauma e non solo. Trova la sua espressione sia in tecniche di intervento basate sul colloquio sia in modalità più orientate al corpo, rivolgendo una particolare attenzione all’esperienza somatica come punto di accesso per l’elaborazione di eventi traumatici. 

Sviluppata a partire dagli anni ’80 da Pat Ogden, con il contributo del lavoro di Ron Kurtz, dei lavori nel campo dell’attaccamento, delle neuroscienze, della mindfulness e di approcci corporei come l’Hakomi Method e il Metodo Rolf di integrazione strutturale, la psicoterapia sensomotoria lavora integrando modelli psicoterapeutici tradizionali, come gli approcci psicanalitici e cognitivo comportamentali con procedure che mettono al centro della consapevolezza il corpo e i significati delle esperienze vissute radicati in esso. Il corpo diventa essenziale nel lavoro terapeutico poiché la persona “ricorda” gli eventi traumatici attraverso la riesperienza sensomotoria, con sintomi come disregolazione emotiva, sintomi fisici o sintomi dissociativi. 

Nell’approccio sensomotorio, considerando primariamente la componente fisiologica del trauma, si interviene sullo squilibrio tra il sistema simpatico e parasimpatico e sulla sofferenza indotta dall’iper-attivazione (o ipo-attivazione) dell’arousal o dal tentativo di difendersi da essa. Il lavoro sul corpo facilita il processamento delle memorie implicite, modifica gli apprendimenti procedurali e facilita la regolazione dell’arousal del sistema nervoso autonomo.

In persone esposte a traumi, sia unici che ripetuti, si verificano risposte di “falso allarme”. L’organismo, infatti, risponde ad una minaccia in maniera automatica, senza calibrare l’attivazione attivando strutture subcorticali, come l’amigdala, che innescano risposte stereotipate e generalizzate di difesa anche di fronte ad uno stimolo non minaccioso. Questa reazione tende a cronicizzarsi in soggetti gravemente traumatizzati, soprattutto se le esperienze avverse sono avvenute durante l’età dello sviluppo, riattivando reazioni di difesa che caratterizzano il modo di essere della persona stessa.

Nelle sedute di terapia sensomotoria si mettono da parte i contenuti, la narrazione, per concentrarsi sull’esperienza fisica sperimentata nel momento presente, attraverso la consapevolezza delle sensazioni fisiche per raggiungere la regolazione dell’arousal, punto nodale di quest’approccio.

Tutte le dimensioni dell’esperienza vengono incluse nel lavoro terapeutico, con un atteggiamento curioso ed interessato rivolto all’esperienza somatica procedendo in una direzione di conoscenza, piuttosto che di evitamento, di quei correlati fisiologici spesso considerati allarmanti ma che diventano invece parte di un’esperienza integrata e sempre più regolata.

La Psicoterapia Sensomotoria aiuta quindi i pazienti traumatizzati a regolare le loro esperienze fisiche in modo da percepire un senso di sé radicato, competente e orientato all’esperienza presente, occupandosi non solo del trauma propriamente detto, ma anche di tutte quelle situazioni, che vissute durante l’infanzia, possono aver lasciato traccia nel corpo o nei comportamenti, dirottando i pensieri e le emozioni. 

Allo stato attuale la Psicoterapia Sensomotoria rappresenta un trattamento specifico per il Disturbo Post-traumatico da Stress, per i disturbi post-traumatici complessi e i disturbi relativi allo sviluppo e alla storia di attaccamento.

Pat Ogden, Kekuni Minton, Clare Pain, (2012) “Il trauma e il corpo. Manuale di Psicoterapia Sensomotoria”, Istituto Scienze Cognitive Editore

Pat Ogden, Janina Fisher (2016) “Psicoterapia Sensomotoria. Interventi per il trauma e l’attaccamento”, Raffaello Cortina Editore

D.J. Siegel, “Mindfulness e Cervello” (2009). Raffaello Cortina Editore